
Nel corso del terzo anno di studi universitari in Medicina si è trasferita a Bologna dove è rimasta anche per la specializzazione: “Avevo 15 anni quando ho deciso di fare il medico, era la festa dei 70 anni di mio nonno”. La prof.ssa Kon è Professore associato presso Humanitas University e Humanitas Research Hospital di Milano ed è vice Presidente dell’ICRS (International Cartilage Regeneration & Joint Preservation Society).
18 gennaio 2022
È nata in Russia e in Italia è arrivata per completare il percorso di studi in Medicina e Chirurgia. E dall’Italia, Elizaveta Kon, non è più andata via. Oggi è la sua casa e il suo mondo lavorativo: passato, presente e futuro legati all’ortopedia.
Professoressa Kon, ci delinea il suo curriculum professionale?
“La mia è una storia un po’ particolare perché ho iniziato l’università in Russia, poi al terzo anno mi sono trasferita a Bologna e qui ho concluso il percorso di studi e mi sono specializzata al Rizzoli, dove sono rimasta sino a 5 anni fa. Dopo aver diretto dal 1994 al 2016 il Laboratorio di NanoBiotecnologie dell’Istituto Ortopedico Rizzoli e svolto l’attività di chirurgo ortopedico, con tutto il nostro gruppo, ci siamo trasferiti per iniziare la nuova avventura nell’Humanitas University e qui abbiamo avviato un percorso di insegnamento nell’ortopedia e traumatologia, dove sono diventata professore associato. Sono anche responsabile scientifica e organizzativa di diversi progetti di ricerca europei e nazionali e ho rivestito incarichi in board di società scientifiche nazionali e internazionali (ESSKA, ICRS e SIGASCOT). Attualmente sono vice Presidente dell’ICRS (International Cartilage Regeneration & Joint Preservation Society) e membro del comitato esecutivo della SIAGASCOT.
Come mai ha lasciato il suo Paese per proseguire gli studi in Italia?
“Un po’ per tradizione familiare: mio nonno è chirurgo ortopedico e si è laureato a Bologna nel ’39, poi è tornato in Russia dove ha aperto una clinica. Ho sempre avuto questo mito dell’università degli studi di Bologna. Poi quelli erano gli anni Novanta e avevo la possibilità di uscire da un Paese chiuso e mi incuriosiva il percorso di studi all’estero. Sono partita per un viaggio di studi e alla fine sono rimasta a vivere in Italia, un Paese che mi piace e che mi è sempre piaciuto”.
Come è nata la sua passione per la medicina? L’ha ereditata dal nonno?
“Sì, la passione per la medicina nasce dal nonno. Mi ricordo perfettamente il momento in cui ho deciso di fare il medico: avevo 15 anni ed era il compleanno del nonno che festeggiava 70 anni. Si occupava di colonna vertebrale e scoliosi, curava i bambini in una clinica a Mosca. Quel giorno c’erano davvero decine di pazienti a portare la loro testimonianza, dicevano di come la loro vita era stata cambiata e, in alcuni casi, salvata. Parlavano con le lacrime agli occhi ed era davvero commovente e toccante. C’era il mio papà, scienziato fisico, che era di fianco a me e mi disse: ‘Vedi, questa riconoscenza la puoi avere se sei medico’. Puoi essere chiunque, anche uno scienziato famoso, ma questa riconoscenza della gente, non la potrai avere se non fai il medico. È qualcosa di impagabile”.
L’Ortopedia è l’unica specialità chirurgica il cui il numero delle donne è ancora molto basso rispetto alle altre specialità. Il numero delle figure apicali oggi in Italia, è ancora più esiguo. Quali sono i motivi di tale disparità oggi, quale impatto negativo pensa possa avere e in quali ambiti?
“Nel campo della medicina e in particolare nelle università, il 60-70% sono donne. La medicina in generale inizia a essere prevalentemente femminile, mentre nel campo delle branche chirurgiche c’è ancora una minoranza di donne. In quella ortopedica siamo sull’8-9 %. Il motivo è legato al fatto che le branche chirurgiche sono socialmente impegnative. Secondo me, non è tanto la resistenza della popolazione che rimane ma solo in piccolissima parte ed è stata superata dai pazienti. Fanno eccezione alcuni pazienti molto anziani, ma nell’immaginario collettivo la donna chirurgo è accettata. Non siamo più negli anni Cinquanta e Sessanta, quando faceva strano. Mi ricordo quando ero ragazzina io, ma adesso la resistenza all’accettazione sta venendo meno.
Per quanto mi riguarda, non ho mai avuto nessun tipo di discriminazione nella mia vita professionale e questo voglio sottolinearlo. In generale, dal punto di vista sociale, per una donna è un challenge (una sfida, ndr), un qualcosa che penalizza la famiglia. Questo perché, nell’immaginario collettivo, la donna è quella che bada alla famiglia che resta sulle sue spalle. Vale anche per le donne manager, quelle che dirigono un’azienda perché si tratta di un lavoro impegnativo che sottrae il tempo per la famiglia. Ma tale aspetto non viene capito né dal punto di vista professionale, né da quello sociale. La realtà è che ci sono poche donne in posizioni apicali proprio perché è estremamente difficile conciliare la vita familiare e la vita lavorativa e in questo, va detto, lo Stato non aiuta.
Faccio l’esempio di una mia carissima amica, primario di radiologia in Israele e che ha vissuto tanto negli Stati Uniti: ha sei figli e le ho chiesto come avesse fatto a gestirli e a lavorare. La sua risposta è stata: ‘Negli Stati Uniti è facile fare figli’. Perché ci sono sostegni, per esempio, c’è lo scuolabus che passa a prendere i bambini per portali a lezione e le giornate sono organizzate, così la donna ha il tempo di lavorare. In Italia questo non avviene e deve pensarci bene prima di mettere al mondo un figlio, per cui se non c’è la collaborazione di qualcuno, che può essere il marito o altri familiari, è estremamente difficile fare carriera in ortopedia così come in ogni altro settore”.
Gli articoli pubblicati negli ultimi anni hanno mostrato come il mentoring sia un elemento di sostegno per la carriera e la crescita professionale di un chirurgo. Chi sono stati i suoi mentori e crede che abbiano avuto un ruolo nel raggiungimento dei suoi obiettivi?
“Il mio mentore per eccellenza, è stato il mio professore, Maurilio Marcacci. È lui che mi ha insegnato tutto, dal modo di pensare all’approccio all’ortopedia. È stato, quindi, un grande maestro. Fermo restando che il centro dell’attenzione per ogni medico è il paziente, quando parlo di approccio mi riferisco all’onestà: nel lavoro bisogna essere professionali e onesti verso i colleghi e, nel nostro caso, verso i pazienti. Onestà a 360 gradi. Quando si decide di fare il medico, si mettono i bisogni degli altri davanti ai nostri. Alla base c’è l’onestà: va sempre detta la verità. I pazienti non vanno mai illusi. È un comportamento fondamentale che cerco di insegnare agli studenti. Un’altra cosa che mi ha insegnato Marcacci è l’approccio globale al paziente: non bisogna mai dimenticare che si tratta di una persona quando si ha davanti un ginocchio. E anche questo cerco di trasmettere a studenti e specializzandi”.
In termini di leadership crede che esista una differenza nell’ambiente di lavoro? E se sì come ha strutturato il suo modello di leadership?
“Ci sono sicuramente diversi modelli di leadership. Io li accetto tutti, anche quelli un po’ duri. Leader è colui/e che è in grado di trascinare le persone dietro di sé, deve ispirare con il suo esempio. Probabilmente io non sono molto dura come persona, a volte mi manca questo aspetto. Leader è chi viene rispettato, non temuto. Non può essere un fratello, è una figura superiore, così come un genitore non è un amico del figlio/a. E’ una figura paterna e molto forte, di grande rispetto, così come è stato per me il mio mentore, e carismatica. Deve riuscire a trasmettere entusiasmo. Questo è quello che io spero di riuscire a fare nella mia vita: trasmettere passione e principi”.
La percentuale delle donne nelle società scientifiche in Ortopedia non supera a livello internazionale il 10%. Quanto ritiene importante per la crescita di una professionista la partecipazione alla vita delle società scientifiche e che benefici può avere questo fattore per il professionista e per la società?
“Per me la partecipazione alla vita delle società scientifiche è fondamentale. Ho sempre avuto grande entusiasmo nella ricerca scientifica e ho partecipato come fondatrice a diverse società. Mi rendo conto che non è una cosa che fanno tutti e che non si riesce a fare, per motivi di tempo e impegni professionali. L’aspetto scientifico però ci distingue da un lavoro di routine. E va fatto specialmente quando si è giovani. In caso contrario, si finirebbe con l’affidarsi completamente ai rappresentanti delle industrie che propongono nuovi prodotti. La società-comunità ortopedica è indispensabile e per questo cerco sempre di incoraggiare i giovani, a fare scienza cioè a fare ricerca in ortopedia, che può anche essere, per certi versi, divertimento. Sicuramente la ricerca è il succo della vita professionale che permette a questo lavoro di elevarsi, e in più offre momenti di incontro e scambio di idee fra colleghi.
Da aprile dovrei diventare presidente dell’Icrs, società internazionale che riunisce sia gli ortopedici, che gli scienziati di base nell’ambito degli studi delle articolazioni. SIOT, me lo lasci dire, sta facendo un grande lavoro per le donne ortopediche”.
La SIOT per la prima volta nella sua storia ha fondato una commissione Pari Opportunità per analizzare questa situazione. L’obiettivo è svincolare la discussione da una lotta di genere verso una alleanza per una finalità comune. Ritiene utile queste iniziative e la nascita di network di professioniste come la WOW (Women in Orthopaedic Worldwide) a livello nazionale e internazionale?
“Secondo me queste iniziative sono utili. Io sono tra le fondatrici della WOW Italia. Sono utili perché secondo me perché promuovono le pari opportunità per le donne, ma non cercano il privilegio per le donne. Non si tratta di chiedere il privilegio perché si è donna, si tratta invece di avere pari opportunità che, al momento, non si hanno. La donna se vuole essere trattata in modo pari, deve essere pari. Io, per esempio, ho conosciuto colleghe che continuavano a chiedere giorni di permesso e lo capisco da un lato, ma dall’altro non ci si può aspettare di essere trattata come gli uomini”.
Diversi articoli hanno dimostrato che la soglia da raggiungere perché si possa valutare un impatto della diversità in ambito lavorativo è del 30%. Quali pensi possano essere i benefici di questa più equa rappresentanza?
“I benefici sono riconducibili al diverso approccio al lavoro, tra uomini e donne. È come chiedere se le scuole devono essere miste oppure solo maschili e femminili. Tutti gli ambienti lavorativi devono essere misti. Tutti quelli che, al contrario, sono chiusi diventano in un certo senso ambienti viziosi. Le donne devono avere ruoli. Vero è che ci sono Paesi in cui questo non avviene. Non voglio citare l’Afghanistan, però ci sono realtà molto lontane dal nostro mondo occidentale”.
Cosa direbbe ad una giovane professionista che inizia la sua carriera in questo panorama?
“Cosa direi? Di non aver paura di nulla, di farsi valere, riconoscere e di distinguersi. Sfruttare il fatto di essere, magari, l’unica donna nel gruppo perché, alla fine, tutti si ricordano di te e aggiungerei, sempre come consiglio, di vedere questa situazione come un vantaggio e non come uno svantaggio. Mai scoraggiarsi”.