
La neo direttrice dell’U.O. di Ortopedia e Traumatologia ha quasi 4mila interventi all’attivo. “Mi sono avvicinata alla medicina a 17 anni, quando ho visto morire mio nonno di cancro”, racconta. “La mia forza è la famiglia: senza mio marito tutto questo non sarebbe stato possibile”.
25 ottobre 2021
Alessandra Colozza, 48 anni, romana di nascita, laureata a La Sapienza di Roma con specializzazione presso il Rizzoli di Bologna, con una successiva esperienza in America, dal primo giugno 2021 è la primaria dell’Unità Operativa di Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale di Faenza, dove è approdata nel 2006.
L’équipe che dirige è composta da sei dirigenti medici (oltre al Direttore) ai quali, a breve, si aggiungeranno due specializzandi. Nel reparto ci sono 24 posti letto, 6 sale di elettiva a settimana a cui se ne aggiungono 2 per urgenze, con una media di 1.200 interventi l’anno.
Come è composta la struttura?
“Abbiamo due specializzandi fissi. Al momento siamo in 7, ma a breve saremo otto con l’arrivo del mio sostituto, con la prospettiva di essere in nove il prossimo anno, perché abbiamo l’esigenza di avere un altro medico nel pronto soccorso ortopedico”.
Ci delinea il Suo curriculum professionale in poche parole?
“Ho effettuato 3.882 gli interventi come prima operatrice (dato di luglio 2021, ndr), di cui circa 2.500 negli ultimi dieci anni. Ho in curriculum numerose pubblicazioni scientifiche e la partecipazione a una serie di congressi come relatrice, in particolare sulle tecniche chirurgiche per il trattamento delle patologie/traumi degli arti superiori. Da settembre 2019 sono membro del Mayo Elbow Club della Mayo Clinic Rochester negli USA e di uno dei Comitati della Società Italiana di Chirurgia della spalla e del gomito. Ha ricoperto un incarico di docenza all’università di Bologna nel master di Chirurgia Spalla e Gomito e ho svolto la funzione di tutor per gli specializzandi di Ortopedia con l’università di Ferrara e Parma. Attualmente sono vicepresidente del comitato Gomito Siagascot, sono segretaria Otodi Regionale e faccio parte del comitato Avambraccio e gomito Esska”.
Come è nata la sua passione per la medicina?
“L’ho scoperta a 17 anni, in un momento molto doloroso: mio nonno stava morendo di cancro e allora iniziai a leggere per sapere”, racconta. “Decisi che sarei diventata oncologa, ma poiché sono una persona molto empatica, cambiai strada e mi avvicinai all’ortopedia.
Sono una persona che si annoia abbastanza facilmente ed ha bisogno di stimoli continui, essendoci diverse branche e differenti fasce d’età, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ho sempre imparato qualcosa di nuovo. E continuo a farlo”.
L’Ortopedia è l’unica specialità chirurgica il cui il numero delle donne è ancora molto basso rispetto alle altre specialità. Il numero delle figure apicali oggi in Italia, è ancora più esiguo.
Quali sono i motivi di tale disparità oggi, quale impatto negativo pesa possa avere e in quali ambiti?
“Se oggi siamo ancora ben lontani dalle pari opportunità, non è per una questione di pregiudizio nei confronti delle donne, ma per aspetti culturali e sociali con i quali le donne sono costrette a fare i conti”, sostiene la primaria.
“Nella maggior parte dei casi, l’uomo dà per assunto che è la donna-madre a occuparsi dei figli e della casa e si concentra in maniera autonoma sulla sua carriera non lasciando, nella maggior parte dei casi, uno spazio adeguato alla compagna per la sua affermazione professionale”, sottolinea. “Dall’altro, quando la donna diventa mamma si scontra con una realtà che non la supporta in questa scelta: non ci sono asili nido nei luoghi di lavoro, né orari flessibili che, al contrario, sono fondamentali per lo meno nei primi anni di vita dei bambini e manca anche una rete di baby sitting che a mio avviso si potrebbe concepire con le amministrazioni comunali”, va avanti. “Per questo, continuo a sostenere che la società non aiuta le donne nella scelta della maternità e in alcune circostanze impedisce di mettere al mondo figli. Il che è assurdo, anche perché i figli regalano equilibrio nella vita quotidiana, rendono possibile lo spostamento del baricentro con sfumature positive nel comportamento e nelle relazioni, per cui anche nel lavoro si acquisisce una marcia in più, si diventa più diplomatici, empatici e disponibili al gioco di squadra.
Le donne, alla fine, si trovano costrette a vivere in un continuo e perenne senso di colpa: nei confronti dei figli, quando sono al lavoro, e verso il datore di lavoro quando, ad esempio, chiedono giorni di permesso per restare a casa con i figli che hanno la febbre. È evidente che questo impedisce loro di andare avanti e penalizza la società stessa.
Nel mio caso, invece, io e mio marito ci siamo confrontati e alla fine mi ha incoraggiato ad andare avanti, dicendomi di non preoccuparmi delle nostre figlie perché ci sarebbe stato lui a supportarmi. Ecco, questo mi ha permesso di avere la giusta serenità e il tempo di proseguire nella carriera”.
Gli articoli pubblicati negli ultimi anni hanno mostrato come il mentoring sia un elemento di sostegno per la carriera e la crescita professionale di un chirurgo. Chi sono stati i suoi mentori e crede che abbiano avuto un ruolo nel raggiungimento dei suoi obiettivi?
“Avendo studiato in America alla Mayo Clinic di Rochester, sicuramente una delle figure di spicco che più mi ha ispirato nella chirurgia del gomito è il professor Shaw O’Driscoll. Una figura autorevole e brillante, che ragiona su tutto, stimolando il confronto e l’intelletto. Nella vita quotidiana do’ per acquisiti e consolidati dei concetti. Ogni qualvolta, invece, torno alla Mayo Clinic, durante le mie visite annuali al professor O’Driscoll mi ritrovo spesso a riconsiderare dei concetti in precedenza assunti.
Dalla risposta non posso innegabilmente escludere il mio precedente primario che è il dottor Maurizio Fontana il quale, fin da subito, mi ha dato fiducia, stimolandomi e aiutandomi a fare un salto di qualità, sia dal punto di vista scientifico che dal punto di vista chirurgico.
La mia prima esperienza professionale è arrivata nel 2002 a Trento, nell’ospedale Santa Chiara con un incarico di dirigente medico nell’Unità Operativa di Ortopedia e Traumatologia, con competenze di chirurgia artroscopia, traumatologia complessa, in particolare degli arti superiori e chirurgia del bacino”.
In termini di leadership crede che esista una differenza nell’ambiente di lavoro? E se sì come ha strutturato il suo modello di leadership?
“Da un punto di vista puramente accademico, esistono 4 tipi di leadership. Ma al di là della teoria, personalmente cerco sempre di limitare o arginare per quanto possibile i contrasti che avvengono in struttura. Potrei definire il mio stile di leadership “materno”, tanto che in alcuni contesti mi definiscono “mamma Colozza”.
Ovviamente, gli equilibri che si creano in reparto sono difficili da gestire. Ci sono diverse componenti da tenere in considerazione, a partire dalla valutazione delle caratteristiche del singolo medico sia in termini di indole che di competenze.
Non sono mai aggressiva. Cerco di ascoltare le persone, di tranquillizzare quando vedo che c’è un livello di adrenalina troppo alto, di smorzare, di creare punti di contatti e di creare un clima sereno”.
La percentuale delle donne nelle società scientifiche in Ortopedia non supera a livello internazionale il 10%. Quanto ritiene importante per la crescita di una professionista la partecipazione alla vita delle società scientifiche e che benefici può avere questo fattore per il professionista e per la società?
“Credo che il problema non sia tanto nell’atteggiamento della donna, quanto nella difficoltà che essa ha nel gestire il proprio tempo districandosi tra cura dei propri figli e lavoro.
Nel momento in cui si ricoprono ruoli che richiedono un carico lavorativo relativamente basso, quale potrebbero essere ad esempio 38 ore settimanali, se hai una rete familiare ben organizzata potresti riuscire a gestire entrambe le cose.
Se però decidi di ricoprire ruoli dirigenziali che, al contrario, richiedono un carico di lavoro esponenzialmente superiore, automaticamente vieni assorbita dal contesto e ti ritrovi a prendere una scelta che oscilla tra la cura della famiglia e la carriera lavorativa”.
La SIOT per la prima volta nella sua storia ha fondato una commissione PO per analizzare questa situazione. L’obiettivo è svincolare la discussione da una lotta di genere verso una alleanza per una finalità comune. Ritiene utile la presenza di queste iniziative e la nascita di network di professioniste come la WOW (Women in Orthopaedic Worldwide) a livello nazionale e internazionale?
“Voglio essere sincera. Sicuramente queste organizzazioni partono con un intento di giustizia sociale che condivido e apprezzo moltissimo e di cui sono fermamente promotrice. L’importante è che non vengano strumentalizzate e non passi il concetto che io, in quanto donna, devo emergere rispetto all’uomo. Ritengo, quindi, che sia fondamentale che alla base ci sia, sì la volontà di difendere categorie che fino a questo momento non sono state valorizzate, ma che quest’ultima sia basata su un principio di meritocrazia e giustizia.
Credo anche che alla base della discriminazione della figura della donna ci sia una carenza sociale e amministrativa molto forte. Onestamente, non ho mai percepito una discriminazione dell’uomo nei miei confronti. Ho sempre svolto il mio lavoro con professionalità, ponendomi sullo stesso piano. C’è da dire, che io ho potuto fare questo perché avevo un’organizzazione familiare alle spalle che mi permetteva di farlo. Molte donne, purtroppo, non hanno questa possibilità e nella maggior parte dei casi non vengono neanche aiutate dallo Stato.
Ritengo quindi, che il problema non sia tanto del singolo che discrimina, ma quanto dell’intero sistema sociale che non supporta adeguatamente le necessità familiari della donna, che non riesce a dedicare al lavoro lo stesso quantitativo di tempo di un uomo”.
Cosa direbbe ad una giovane professionista che inizia la sua carriera in questo panorama?
“Il primo consiglio che darei è di fare sicuramente un’esperienza all’estero perché apre la mente e aumenta la possibilità di aggiornarsi.
Successivamente ritengo che sia fondamentale trovare un Direttore in cui non si percepisca un pregiudizio e che sia capace di trattare alla pari sia la figura dell’uomo che della donna.
Io ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso professionale il professor Fontana che mi ha messo nelle condizioni di lavorare. Purtroppo, però, non è sempre così in tutte le situazioni.
In sintesi, quindi, ritengo che sia fondamentale per il proprio percorso professionale avere un background culturale tale da non poter essere messa in discussione l’oggettiva capacità del medico, dimostrare sempre estrema disponibilità nel fare i turni in reparto e in ultimo sviluppare, attraverso dei periodi di frequenza in vari reparti, quella sana furbizia che permette di valutare la competenza e l’attitudine meritocratica del direttore di struttura, che è quello che poi alla fine fa la differenza.
Noi ad esempio in struttura abbiamo una donna giovanissima, che è la dottoressa Padovani che è eccezionale. A breve, auspicabilmente dovrebbe arrivare una seconda collega a supporto. Ecco, posso dire che da noi, le donne vengono a lavorare molto volentieri perché sanno che vengono trattate alla pari degli uomini, facendo sempre attenzione a non discriminare nel modo inverso”.
(intervista di Stefania De Cristofaro – Comunicazione Sanitaria)