La prof.ssa Elena Samaila è la neo presidente della SICeP

La Società Italiana della Caviglia e del Piede ha eletto la sua nuova presidente per il biennio 2022-24. Si tratta di Elena Samaila, docente universitaria e sostenitrice della Commissione Pari Opportunità della SIOT. Sarà la prima donna a guidare una “superspecialistica” nella branca ortopedica. Vi proponiamo di seguito l’intervista rilasciata in occasione del congresso nazionale di novembre 2021.

17 dicembre 2021

Rubrica PARI OPPORTUNITA' SIOT

Da bambina giocava a curare le ferite che si procurava assieme ai fratelli quando andava a trovare i nonni in campagna, in Romania, dove è nata e cresciuta.
Elèna Samaìla (nella pronuncia rumena, poi italianizzata in Èlena Samàila), ha dunque scoperto la passione per la medicina già nel corso dell’infanzia e, appena raggiunta la maggiore età, ha scelto Modena per frequentare l’Università. Dopo la laurea in Medicina e Chirurgia con lode ha proseguito gli studi e si è specializzata a Verona.
Nonostante la giovane età, ha già una straordinaria carriera alle spalle, coronata pochi giorni fa, con l’elezione a presidente della Società Italiana della Caviglia e del Piede (SICeP), affiliata alla SIOT.
L’abbiamo intervistata presso lo stand della CPO in occasione del congresso nazionale.

 

Prof.ssa Samaila, ci delinea il Suo curriculum professionale in poche parole?

“Sono Prof.ssa associata presso la Clinica Ortopedica dell’Università di Verona. Sono nata in Romania e ho scelto di svolgere gli studi in Medicina presso l’Università di Modena dove mi sono laureata a 25 anni, a pieni voti. Poi ho sposato un ragazzo veronese e ho pertanto scelto la città scaligera per proseguire con la specializzazione. Ho tentato, con successo, l’ingresso in Ortopedia a Verona dove mi sono specializzata nel 2007 con il Prof. Pietro Bartolozzi. Qui ho iniziato la mia attività di ricerca, come assegnista, nel progetto “Sviluppo di nuovi modelli protesici e tecniche chirurgiche nella sostituzione articolare della tibio-tarsica nell’artrosi post-traumatica in pazienti giovani”. Da allora, la passione per la ricerca scientifica non mi ha mai abbandonato”.

 

Come mai ha scelto la facoltà di medicina?

“Sin da piccola ho scoperto di voler aiutare chi stava male, occupandomi della medicazione e seguendo l’evoluzione delle piccole ferite che, assieme ai miei scatenati fratelli, ci procuravamo quando eravamo in visita dai nonni, in campagna. A loro va il merito di averci sempre voluto coinvolgere nell’attività dell’allevamento degli animali. Ad esempio, abbiamo spesso assistito alla nascita dei capretti e badato alle esigenze della fattoria. Questo mi ha insegnato l’origine della vita e mi ha spinta verso il sogno di diventare una dottoressa”.

 

Dottoressa prima e poi un’ortopedica… specialità chirurgica il cui il numero delle donne è ancora molto basso in Italia. Per quali ragioni, secondo lei?

“Purtroppo in Ortopedia, ancora oggi, ci sono dei grossi limiti culturali ed è ancora radicata l’idea dell’ortopedico maschio, grande e grosso, al quale si richiede molta forza nello svolgimento delle attività chirurgiche. Lo hanno detto anche a me quando scelsi la branca ortopedica: “ripensaci”, sei troppo minuta per questo lavoro. Ma naturalmente non mi sono arresa. Anche se non ho esattamente un fisico imponente, non capivo perché nessuno si fosse mai sognato di scoraggiare i miei colleghi di specialità “diversamente alti” come me.
Oggi, poi, questa faccenda della forza fisica è totalmente superata grazie alle nuove tecnologie chirurgiche che richiedono precisione e pazienza, virtù molto comuni nelle donne”.

 

Gli articoli pubblicati negli ultimi anni hanno mostrato come il mentoring sia un elemento di sostegno per la carriera e la crescita professionale di un chirurgo. Chi sono stati i suoi mentori e crede che abbiano avuto un ruolo nel raggiungimento dei suoi obiettivi?

“Il mentoring per me è stato fondamentale. Ho iniziato a frequentare Ortopedia, già nella seconda settimana del primo anno di Medicina, nel 1996. Dovevamo fare le 150 ore in un reparto e non sapevamo quale scegliere, per cui ho fermato le prime due infermiere che passavano nella hall del Policlinico di Modena e ho chiesto un consiglio su dove frequentare queste importanti ore di formazione. Hanno parlato tra loro e hanno detto: ‘Scegli chirurgia della mano che è un bell’ambiente’. Così approdai in questa Specialità. All’epoca il direttore era il Prof. Paolo Bedeschi al quale succedette il Dottor Antonio Landi. Con loro sono entrata per la prima volta in sala operatoria e lì ho capito quanto meravigliose fossero le ossa.

Purtroppo nel 1999 hanno chiuso le scuole di specialità in chirurgia della mano e mi sono trovata a un bivio: ‘E ora cosa faccio?’. Ancora una volta ho ricevuto un buon consiglio da parte di alcuni colleghi che mi hanno detto: ‘Fai la tesi in Ortopedia e segui un master in chirurgia della mano se vorrai procedere’. Così chiesi la tesi al Prof. Luigi Celli, che era il direttore, e mi hanno affidato al Prof. Claudio Rovesta e alla dottoressa Carmen Marongiu che considero la mia prima mentore: una donna chirurgo bravissima dal punto di vista professionale, con grande gentilezza nei confronti dei pazienti e sempre pronta a insegnarmi. È stata lei a farmi avvicinare all’ortopedia pediatrica.

La mia formazione da specializzanda a Verona è stata segnata, sin dal primo anno, dal Prof. Bruno Magnan che all’epoca era “aiuto anziano” del direttore, il Prof. Pietro Bartolozzi. Considero entrambi miei maestri. Il primo mi fatto appassionare alla chirurgia del piede e mi ha trasmesso la passione per la ricerca scientifica. Il secondo mi ha sempre spronato a fare la carriera universitaria, tanto è vero che quando si doveva decidere chi avviare in questo ambito, ha scelto me rispetto agli altri otto colleghi maschi, invitandomi a partecipare al concorso di attribuzione di un assegno di ricerca.

Non c’era mai stata alcuna donna strutturata ortopedica a Verona, tanto è vero che sono stata la prima nel 2009 nell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata. I miei mentori veronesi sono due uomini, con un’apertura mentale tale da darmi le stesse opportunità dei maschi. E io penso di aver saputo cogliere e sfruttare al massimo ogni occasione”.

 

In termini di leadership crede che esista una differenza nell’ambiente di lavoro?

“C’è un enorme differenza in termini di leadership nel nostro lavoro. Attualmente questa carica, nella pressoché totalità degli ospedali, è maschile. Richiede sicuramente uno sforzo maggiore da parte delle donne, qualora venisse data loro l’opportunità di farlo perché devono essere delle perfette equilibriste per conciliare la leadership e la famiglia”.

 

Lei è stata appena eletta presidente di una prestigiosa società scientifica ortopedica. Ma si tratta purtroppo di un’eccezione. Le donne sono ancora sottorappresentate in questi ambiti. Qual è la situazione a livello internazionale?

“Personalmente ho sempre frequentato, sin dal primo anno di specialità, sia i congressi della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, sia quelli della Società Italiana della Caviglia e del Piede all’interno della quale sono cresciuta, non solo anagraficamente, ma anche professionalmente. La presidenza della SICeP è un grande onore e traguardo per me, ma credo anche per tutte le donne socie che si vedono rappresentate. Anche all’interno dell’EFAS (European Foot and Ankle Societies) la super-specialistica europea che racchiude tutte le società nazionali di caviglia e piede, ho ricoperto la carica di consigliere in rappresentanza dell’Italia. Attualmente le presidenti donne sono quattro su 22 nazioni”.

 

Dunque qualcosa si muove nella direzione di una più equa rappresentanza. Quali ulteriori passi si dovrebbero intraprendere?

“Nel mio piccolo, mi sono basata come metodo organizzativo sulla meritocrazia, indipendente dal sesso, dall’età o dell’anno di specializzazione. Credo che le donne dovrebbero confrontarsi con i colleghi maschi senza timori reverenziali, perché la diversità di genere e il confronto, portano un contributo di idee per una finalità comune. Nella fattispecie, per la cura dei pazienti, a volte, ci vuole proprio la sensibilità che una donna ha, forse, in più rispetto a quella che può dare un uomo nel rapporto medico-paziente. Vedi gli ambiti pediatrico e tumorale, il modo di porsi nei confronti del paziente. Avere in équipe delle donne chirurghe che trattano patologie particolari credo sia un valore aggiunto nella gestione di questi aspetti, anche psicologici che forse in quanto donne siano più portate a considerare”.

 

La SIOT per la prima volta nella sua storia ha fondato una commissione Pari Opportunità proprio con l’obiettivo di svincolare la discussione dalla lotta di genere verso una alleanza per una finalità comune. Cosa ne pensa?

“Credo molto nella Commissione Pari opportunità della SIOT. Basterebbe fare su larga scala, ciò che è il nostro quotidiano: lavorare insieme donne e uomini ortopedici, confrontarsi e scegliere il più esperto nello svolgere tale intervento, relazione o carica dirigenziale”.

 

Cosa direbbe ad una giovane professionista che inizia la sua carriera in questo panorama?

“Direi di evitare di discriminarsi per prima, credendo di non essere altezza pensando di essere solo un metro e sessanta, di perseverare ed essere tenace nell’inseguire i suoi obiettivi e di lavorare con gli ortopedici uomini e non contro, per diminuire le distanze”.


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